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#Laurea, il 3+2 ha funzionato?
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#Laurea, il 3+2 ha funzionato?
In un rapporto della Fondazione Agnelli una riabilitazione della riforma Berlinguer
Ricordate il «3+2»? E’ la «nuova» laurea, quella con cui hanno dovuto cimentarsi i diplomati dal 1999 in poi. Nei tre anni di conduzione gelminiana del ministero dell’Istruzione è andata in onda una campagna continua e dilagante sugli effetti disastrosi della riforma voluta introdotta dodici anni fa dall’allora ministro Luigi Berlinguer.
Oggi uno studio realizzato dalla Fondazione Agnelli ridimensiona molto di quanto si è detto in passato e disegna una situazione di luci ed ombre.
A tutti quelli che a lungo hanno criticato il «3+2» giudicandola una macchina «sforna-laureati» e dipingendo l’Italia come un luogo invaso da giovani pieni di titoli accademici il rapporto risponde con dati che raccontano tutt’altro. «Gli italiani tutti laureati? Una vox-populi», spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione. Abbiamo la metà dei laureati che dovremmo avere entro il 2020 in base agli obiettivi di Lisbona. In realtà il nuovo tipo di laurea permette finalmente di affrontar euna situazione drammatica: nel 2000 si laureano in Italia il 9% di chi ha fra i 25 e i 64 anni di età, solo un punto in più della Turchia, tanto per dire, e dieci punti in meno della media europea. La metà di chi si iscriveva abbandonava gli studi.
A dieci anni dall’introduzione del «3+2» le cifre sono diverse: sono calati dal 20 al 17% gli abbandoni dopo il primo anno di corso e dal 24 al 13% gli immatricolati inattivi, quelli che non conseguono crediti nell’anno solare successivo a quello di immatricolazione. E poi l’università ha perso il suo ruolo di formazione d’elite: nel 2009 il 74,6% dei laureati sono i primi a portare in famiglia un titolo universitario.
Ancora molto c’è da fare se fra gli italiani tra i 25 e i 34 anni chi ha almeno una laurea breve è il 20%, mentre in Germania è il 26%, negli Stati Uniti il doppio dell’Italia, il 41%, e nel Regno Unito il 45%. E soprattutto in dieci anni accadono anche altre cose: raddoppiano i corsi e le sedi, ad esempio. «L’espansione dell’offerta formativa ha superato di gran lunga la crescita delle iscrizioni», è scritto nel rapporto. Difficile quindi immaginare che il proliferare dei corsi sia dovuto all’aumento degli studenti. Non lo è, infatti, ed ecco la «distorsione», per usare una delle parole presenti nel rapporto, della riforma.
Ma non solo gli atenei, anche le aziende hanno la loro quota di responsabilità nell’aver depotenziato gli effetti benefici del «3+2». Vengono assunti centomila laureati in più ma in condizioni di precarietà e con salari e mansioni molto vicine a quelle dei vecchi diplomati. «La verità è che le imprese hanno difficoltà a distinguere fra i diversi tipi di laurea e si è creata una gran confusione - spiega Gavosto - mentre sul fronte universitario, mancando sistemi di valutazione e controllo gli atenei hanno privilegiato obiettivi interni, piuttosto che la qualità dell’offerta
Flavia Amabile
Ricordate il «3+2»? E’ la «nuova» laurea, quella con cui hanno dovuto cimentarsi i diplomati dal 1999 in poi. Nei tre anni di conduzione gelminiana del ministero dell’Istruzione è andata in onda una campagna continua e dilagante sugli effetti disastrosi della riforma voluta introdotta dodici anni fa dall’allora ministro Luigi Berlinguer.
Oggi uno studio realizzato dalla Fondazione Agnelli ridimensiona molto di quanto si è detto in passato e disegna una situazione di luci ed ombre.
A tutti quelli che a lungo hanno criticato il «3+2» giudicandola una macchina «sforna-laureati» e dipingendo l’Italia come un luogo invaso da giovani pieni di titoli accademici il rapporto risponde con dati che raccontano tutt’altro. «Gli italiani tutti laureati? Una vox-populi», spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione. Abbiamo la metà dei laureati che dovremmo avere entro il 2020 in base agli obiettivi di Lisbona. In realtà il nuovo tipo di laurea permette finalmente di affrontar euna situazione drammatica: nel 2000 si laureano in Italia il 9% di chi ha fra i 25 e i 64 anni di età, solo un punto in più della Turchia, tanto per dire, e dieci punti in meno della media europea. La metà di chi si iscriveva abbandonava gli studi.
A dieci anni dall’introduzione del «3+2» le cifre sono diverse: sono calati dal 20 al 17% gli abbandoni dopo il primo anno di corso e dal 24 al 13% gli immatricolati inattivi, quelli che non conseguono crediti nell’anno solare successivo a quello di immatricolazione. E poi l’università ha perso il suo ruolo di formazione d’elite: nel 2009 il 74,6% dei laureati sono i primi a portare in famiglia un titolo universitario.
Ancora molto c’è da fare se fra gli italiani tra i 25 e i 34 anni chi ha almeno una laurea breve è il 20%, mentre in Germania è il 26%, negli Stati Uniti il doppio dell’Italia, il 41%, e nel Regno Unito il 45%. E soprattutto in dieci anni accadono anche altre cose: raddoppiano i corsi e le sedi, ad esempio. «L’espansione dell’offerta formativa ha superato di gran lunga la crescita delle iscrizioni», è scritto nel rapporto. Difficile quindi immaginare che il proliferare dei corsi sia dovuto all’aumento degli studenti. Non lo è, infatti, ed ecco la «distorsione», per usare una delle parole presenti nel rapporto, della riforma.
Ma non solo gli atenei, anche le aziende hanno la loro quota di responsabilità nell’aver depotenziato gli effetti benefici del «3+2». Vengono assunti centomila laureati in più ma in condizioni di precarietà e con salari e mansioni molto vicine a quelle dei vecchi diplomati. «La verità è che le imprese hanno difficoltà a distinguere fra i diversi tipi di laurea e si è creata una gran confusione - spiega Gavosto - mentre sul fronte universitario, mancando sistemi di valutazione e controllo gli atenei hanno privilegiato obiettivi interni, piuttosto che la qualità dell’offerta
Flavia Amabile
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