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Caro studente del 2010
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Caro studente del 2010
Una lettera a chi il 14 dicembre era in piazza a Roma
Caro studente del 2010, perdonami, ma ho alcune domande da farti. Ti ho seguito in queste proteste, mi è molto chiaro contro chi e per che cosa lotti. Ti leggo su facebook e sui siti dei movimenti studenteschi. So che sei uno studente moderno, aggiornato, usi i social network e la rete, riesci a organizzare in tempo reale e a costi ridottissimi, blitz spettacolari come quelli di dieci giorni fa quando occupasti in simultanea i più grandi monumenti di tutt’Italia. Ne abbiamo scritto in tanti allora, la tua sembrava una protesta nuova, diversa.
So anche che ti consideri lontano dalla politica e dai partiti e che vuoi essere ricordato come uno dei book bloc, i giovani scesi in piazza armati di scudi di gommapiuma decorati come copertine di libri di grandi autori. Perché è la cultura che vuoi, e perché solo la cultura è la garanzia di un futuro migliore per tutti. Come non darti ragione?
Le mie domande sono altre, e dopo quello che è avvenuto due giorni fa a Roma, non posso tenerle per me. Il governo aveva ottenuto la fiducia anche alla Camera da una decina di minuti quando eri su corso Vittorio Emanuele, eri una folla. Ad un certo punto da questa folla si sono staccati due giovani, le spranghe in mano: a turno hanno sfondato un bancomat. Stavano affossando anche la tua protesta e il tuo desiderio di cultura, e qualcuno deve essersene reso conto: ho sentito salire alcune voci dal corteo. Dicevano: «No». Dicevano: «Ma che fanno?» Solo questo. Poi avete proseguito in un crescendo di violenza e orrore senza senso.
Caro studente del 2010, ho visto solo io le spranghe nelle mani di quelli che sfilavano con te? Ero solo io al corrente delle intercettazioni sulla violenza annunciata durante la manifestazione di ieri? Sapevo solo io che erano in arrivo gruppi di persone dal nord con una voglia di menare le mani un po’ imbarazzante per un movimento che usa la cultura come scudo?
Non eri in piazza trent’anni fa ma, da esperto della rete, saprai come trovare un filmato del 12 marzo del 1977 girato a piazza del Popolo. Identico il fumo nero, il terrore, lo smarrimento, la distruzione. Qualcuno più grande di te ti ha spiegato di portare una sciarpa per coprirti il viso senza dare nell’occhio con un passamontagna o un casco. Ti hanno avvertito anche di non mancare di avere un limone in tasca. Due gocce negli occhi e il bruciore dei lacrimogeni scompare in un istante. Uno spruzzo sulla sciarpa, si annusa, e si ricomincia a respirare.
Chissà se ti hanno raccontato anche dei servizi d’ordine organizzati, compatti, degli sbandati con passamontagna lasciati fuori, delle minacce con pollice e indice a mo’ di pistola contro gli studenti che volevano solo manifestare. Se l’hanno fatto mi sembra che tu abbia preferito non ascoltare il consiglio: in questi giorni non ho visto alcun servizio d’ordine, solo molti capi che davano ordini alla folla.
Di sicuro hai sentito parlare di strategia della tensione, di infiltrati. Solo due anni fa Francesco Cossiga, in quegli anni ministro dell’Interno, aveva spiegato la ricetta ideale: un gruppetto di provocatori, auto incendiate, violenze, ferite, possibilmente anche tra i civili, e il gioco è fatto. «La gente deve odiare i manifestanti», precisò l’ex-capo dello Stato.
E’ quello che sta avvenendo. E allora non ci sono social network e tecnologie che tengano. Caro studente del 2010, ti stai trasformando nel protagonista di un film già visto, di cui non stai inventando nè l’inizio, né lo svolgimento. Spero almeno che sia diverso il finale.
Flavia Amabile
Caro studente del 2010, perdonami, ma ho alcune domande da farti. Ti ho seguito in queste proteste, mi è molto chiaro contro chi e per che cosa lotti. Ti leggo su facebook e sui siti dei movimenti studenteschi. So che sei uno studente moderno, aggiornato, usi i social network e la rete, riesci a organizzare in tempo reale e a costi ridottissimi, blitz spettacolari come quelli di dieci giorni fa quando occupasti in simultanea i più grandi monumenti di tutt’Italia. Ne abbiamo scritto in tanti allora, la tua sembrava una protesta nuova, diversa.
So anche che ti consideri lontano dalla politica e dai partiti e che vuoi essere ricordato come uno dei book bloc, i giovani scesi in piazza armati di scudi di gommapiuma decorati come copertine di libri di grandi autori. Perché è la cultura che vuoi, e perché solo la cultura è la garanzia di un futuro migliore per tutti. Come non darti ragione?
Le mie domande sono altre, e dopo quello che è avvenuto due giorni fa a Roma, non posso tenerle per me. Il governo aveva ottenuto la fiducia anche alla Camera da una decina di minuti quando eri su corso Vittorio Emanuele, eri una folla. Ad un certo punto da questa folla si sono staccati due giovani, le spranghe in mano: a turno hanno sfondato un bancomat. Stavano affossando anche la tua protesta e il tuo desiderio di cultura, e qualcuno deve essersene reso conto: ho sentito salire alcune voci dal corteo. Dicevano: «No». Dicevano: «Ma che fanno?» Solo questo. Poi avete proseguito in un crescendo di violenza e orrore senza senso.
Caro studente del 2010, ho visto solo io le spranghe nelle mani di quelli che sfilavano con te? Ero solo io al corrente delle intercettazioni sulla violenza annunciata durante la manifestazione di ieri? Sapevo solo io che erano in arrivo gruppi di persone dal nord con una voglia di menare le mani un po’ imbarazzante per un movimento che usa la cultura come scudo?
Non eri in piazza trent’anni fa ma, da esperto della rete, saprai come trovare un filmato del 12 marzo del 1977 girato a piazza del Popolo. Identico il fumo nero, il terrore, lo smarrimento, la distruzione. Qualcuno più grande di te ti ha spiegato di portare una sciarpa per coprirti il viso senza dare nell’occhio con un passamontagna o un casco. Ti hanno avvertito anche di non mancare di avere un limone in tasca. Due gocce negli occhi e il bruciore dei lacrimogeni scompare in un istante. Uno spruzzo sulla sciarpa, si annusa, e si ricomincia a respirare.
Chissà se ti hanno raccontato anche dei servizi d’ordine organizzati, compatti, degli sbandati con passamontagna lasciati fuori, delle minacce con pollice e indice a mo’ di pistola contro gli studenti che volevano solo manifestare. Se l’hanno fatto mi sembra che tu abbia preferito non ascoltare il consiglio: in questi giorni non ho visto alcun servizio d’ordine, solo molti capi che davano ordini alla folla.
Di sicuro hai sentito parlare di strategia della tensione, di infiltrati. Solo due anni fa Francesco Cossiga, in quegli anni ministro dell’Interno, aveva spiegato la ricetta ideale: un gruppetto di provocatori, auto incendiate, violenze, ferite, possibilmente anche tra i civili, e il gioco è fatto. «La gente deve odiare i manifestanti», precisò l’ex-capo dello Stato.
E’ quello che sta avvenendo. E allora non ci sono social network e tecnologie che tengano. Caro studente del 2010, ti stai trasformando nel protagonista di un film già visto, di cui non stai inventando nè l’inizio, né lo svolgimento. Spero almeno che sia diverso il finale.
Flavia Amabile
Gilberto Carron- Numero di messaggi : 518
utente : genitore
Data d'iscrizione : 15.02.10
Re: Caro studente del 2010
LA VIOLENZA CHE INCOMBE. COME IN UN DÉJÀ VU
Figli miei, figli nostri non ci cascate
MARINA CORRADI
C ome in un déjà vu. Il fuoco e il fumo nero. La cortina dei lacrimogeni, gli autoblindo incendiati, le facce coperte dai passamontagna, le spranghe. Fissi con angoscia le immagini di Roma: un film già visto, un brutto film che sembra tornato dal passato, martedì pomeriggio, in piazza del Popolo e non solo.
Sono passati oltre trent’anni. Ma la cronaca da Roma potrebbe essere un filmato anni Settanta: la guerriglia e una rabbia che spacca, sfascia, frantuma, picchia. Chi ha cinquant’anni, ricorda. Anche allora sulle autoblindo c’erano giovani poliziotti, chiamati con disprezzo 'celerini'. A Milano, erano tutti figli di immigrati dal Sud; e tuttavia i 'proletari' erano gli altri, i figli dei borghesi. Io ero molto giovane: rivedo le cariche della polizia, risento l’odore acre dei lacrimogeni che bruciava gli occhi. Un odio che si allargava. Rivedo poi una scena muta: la folla al funerale del commissario Calabresi, lungo corteo nero e silenzioso. L’odio aveva fatto un altro morto a Milano.
Pochi anni dopo, al liceo, gli autoblindo davanti al portone. E c’erano due sole possibilità: o compagni, o fascisti. Non ti davano nemmeno il tempo di scegliere. Figlia di un giornalista del Giornale di Montanelli, io ero naturalmente considerata 'fascista'. I compagni, in quel liceo Parini anni Settanta, alzavano rabbiosi il pugno, ma al polso avevano spesso un Rolex.
E la realtà tutta, sempre, o bianca o nera. Il male, sempre ed esclusivamente da una parte sola – quella degli altri. Se una foto inchiodava un manifestante con la spranga in mano, quello, ovvio, era un provocatore infiltrato. Rivedo l’inquietudine di mio padre, quando si trovò la casa devastata, la Olivetti Lettera 32 per terra. A Montanelli, a Tobagi spararono davvero: l’odio delle parole di certi salotti della Milano bene, si era alla fine condensato in piombo.
Non può essere che quel tempo ritorni, ti dici. Ma allora come è stato, cosa è stato a Roma, come un corteo di studenti ha generato la guerriglia? E leggi di black bloc, di professionisti organizzati ed estranei alla massa pacifica. Poi però nelle cronache dei miei colleghi e di altri cronisti dalla piazza avverti che la distinzione non è così netta; il 'Corriere' scrive che a quelli col passamontagna si sono aggiunti ragazzi diciottenni – come contagiati e sedotti dall’aria stessa di piazza del Popolo. All’assemblea alla Sapienza,a sera, nessuna condanna delle violenze, registra 'Repubblica'. Il cronista de 'Il Fatto' afferma che l’atmosfera in piazza è cambiata nell’istante in cui Berlusconi ha ottenuto la fiducia: cambiata «all’improvviso, come per un ordine preciso», scrive, e ora comandano i 'black book', studenti con un libro di polistirolo come scudo, i volti coperti.
Cosa è stato? Agitatori di mestiere, 'antagonisti' di professione, d’accordo. 'Infiltrati, provocatori', senti dire, e anche questa reazione l’hai sentita, uguale, trent’ anni fa. Ma, e gli altri? La folla che applaudiva al primo indietreggiare della polizia, in piazza del Popolo? Non forse ragazzi come gli altri, figli nostri, che l’altra mattina, magari solo a livello di tacito consenso, hanno perso la memoria del confine tra protesta legittima e violenza?
Quel confine radicale, per qualche ora violato.
Attorno al Parlamento, che non rappresenta Berlusconi, ma gli italiani. Del resto, non è sorprendente che dopo mesi e anni di odio verbale spuntino le spranghe. Non stupisce poi tanto, se in realtà, secondo quanto ha scritto ieri Marco Travaglio, Montecitorio è «il regno dei morti», e la questione martedì non era rovesciare un governo, ma «un regime». Già, la storia insegna che i regimi non si rovesciano con le buone maniere. Occorre il sangue. Ma, davvero questo governo pieno di difetti ma democraticamente eletto è un regime? Oggi come trent’anni fa, le parole hanno un peso grave.
All’apparenza sono solo segni sulla carta, ma poi germinano, producono, deflagrano. È un film già visto, un brutto film di paura e di morti. Che i nostri figli non ci credano, che non ci caschino, come i padri – nelle foto di allora in piazza con i caschi, e le spranghe. E poi, un giorno, con le pistole.
Figli miei, figli nostri non ci cascate
MARINA CORRADI
C ome in un déjà vu. Il fuoco e il fumo nero. La cortina dei lacrimogeni, gli autoblindo incendiati, le facce coperte dai passamontagna, le spranghe. Fissi con angoscia le immagini di Roma: un film già visto, un brutto film che sembra tornato dal passato, martedì pomeriggio, in piazza del Popolo e non solo.
Sono passati oltre trent’anni. Ma la cronaca da Roma potrebbe essere un filmato anni Settanta: la guerriglia e una rabbia che spacca, sfascia, frantuma, picchia. Chi ha cinquant’anni, ricorda. Anche allora sulle autoblindo c’erano giovani poliziotti, chiamati con disprezzo 'celerini'. A Milano, erano tutti figli di immigrati dal Sud; e tuttavia i 'proletari' erano gli altri, i figli dei borghesi. Io ero molto giovane: rivedo le cariche della polizia, risento l’odore acre dei lacrimogeni che bruciava gli occhi. Un odio che si allargava. Rivedo poi una scena muta: la folla al funerale del commissario Calabresi, lungo corteo nero e silenzioso. L’odio aveva fatto un altro morto a Milano.
Pochi anni dopo, al liceo, gli autoblindo davanti al portone. E c’erano due sole possibilità: o compagni, o fascisti. Non ti davano nemmeno il tempo di scegliere. Figlia di un giornalista del Giornale di Montanelli, io ero naturalmente considerata 'fascista'. I compagni, in quel liceo Parini anni Settanta, alzavano rabbiosi il pugno, ma al polso avevano spesso un Rolex.
E la realtà tutta, sempre, o bianca o nera. Il male, sempre ed esclusivamente da una parte sola – quella degli altri. Se una foto inchiodava un manifestante con la spranga in mano, quello, ovvio, era un provocatore infiltrato. Rivedo l’inquietudine di mio padre, quando si trovò la casa devastata, la Olivetti Lettera 32 per terra. A Montanelli, a Tobagi spararono davvero: l’odio delle parole di certi salotti della Milano bene, si era alla fine condensato in piombo.
Non può essere che quel tempo ritorni, ti dici. Ma allora come è stato, cosa è stato a Roma, come un corteo di studenti ha generato la guerriglia? E leggi di black bloc, di professionisti organizzati ed estranei alla massa pacifica. Poi però nelle cronache dei miei colleghi e di altri cronisti dalla piazza avverti che la distinzione non è così netta; il 'Corriere' scrive che a quelli col passamontagna si sono aggiunti ragazzi diciottenni – come contagiati e sedotti dall’aria stessa di piazza del Popolo. All’assemblea alla Sapienza,a sera, nessuna condanna delle violenze, registra 'Repubblica'. Il cronista de 'Il Fatto' afferma che l’atmosfera in piazza è cambiata nell’istante in cui Berlusconi ha ottenuto la fiducia: cambiata «all’improvviso, come per un ordine preciso», scrive, e ora comandano i 'black book', studenti con un libro di polistirolo come scudo, i volti coperti.
Cosa è stato? Agitatori di mestiere, 'antagonisti' di professione, d’accordo. 'Infiltrati, provocatori', senti dire, e anche questa reazione l’hai sentita, uguale, trent’ anni fa. Ma, e gli altri? La folla che applaudiva al primo indietreggiare della polizia, in piazza del Popolo? Non forse ragazzi come gli altri, figli nostri, che l’altra mattina, magari solo a livello di tacito consenso, hanno perso la memoria del confine tra protesta legittima e violenza?
Quel confine radicale, per qualche ora violato.
Attorno al Parlamento, che non rappresenta Berlusconi, ma gli italiani. Del resto, non è sorprendente che dopo mesi e anni di odio verbale spuntino le spranghe. Non stupisce poi tanto, se in realtà, secondo quanto ha scritto ieri Marco Travaglio, Montecitorio è «il regno dei morti», e la questione martedì non era rovesciare un governo, ma «un regime». Già, la storia insegna che i regimi non si rovesciano con le buone maniere. Occorre il sangue. Ma, davvero questo governo pieno di difetti ma democraticamente eletto è un regime? Oggi come trent’anni fa, le parole hanno un peso grave.
All’apparenza sono solo segni sulla carta, ma poi germinano, producono, deflagrano. È un film già visto, un brutto film di paura e di morti. Che i nostri figli non ci credano, che non ci caschino, come i padri – nelle foto di allora in piazza con i caschi, e le spranghe. E poi, un giorno, con le pistole.
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