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Genitori a scuola :: ATTIVITA' - INIZIATIVE - PROGETTI - PROPOSTE :: scuola e famiglia, scuola e società
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Tempo di esami anche per la scuola - La valutazione alla scuola -
Autovalutazione: nuova frontiera della partecipazione?
pubblicato il 01/04/2010 da Education 2.0
Il rapporto scuola-famiglia rischia di essere ulteriormente impoverito e compromesso. Non più la condivisione di un unico progetto educativo, ma semplice attività di giudizio, senza spazi per individuare le criticità ed elaborare insieme un processo di cambiamento. Eppure non è ancora tardi per una proposta condivisa…
Esaurita l’avventura del programma annuale con il previsto adempimento, l’on. Valentina Aprea ha preannunciato, nella sua recente intervista a Tuttoscuola, la fase “due” della riforma, che interesserà carriera e reclutamento dei docenti nonché la nuova governance della scuola. Centrale il ruolo della valutazione, realizzata anche con il coinvolgimento di studenti, famiglie ed “organismi tecnici”.
Di valutazione e suoi strumenti si discute da tempo, quale attività di verifica e miglioramento della qualità espressa in termini di “efficienza” – in relazione all’attività svolta – e di “efficacia” – rispetto ai risultati conseguiti – in base alle risposte di valutatori.
In quanto rispondente a un principio di rendicontazione e di superamento dell’autoreferenzialità, essa ha tra le sue fonti normative: la Carta dei Servizi (DPCM 7 giugno 1995), in attuazione del principio della trasparenza e della qualità del servizio, il quale richiede anche che affinché la scuola, come comunità organizzata, operi al meglio, ogni componente agisca conformemente al proprio ruolo, nel rispetto di regole condivise anche attraverso l’adozione di un vero e proprio “contratto sociale”; nonché, soprattutto, con maggiore chiarezza ed evidenza, l’art. 21 comma 9 ultima parte della L 59/97 il quale prevede l’“obbligo di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi”, sebbene di fatto rimesso alla libera ed autonoma iniziativa in mancanza di reale cogenza.
Sono molteplici le esperienze di autovalutazione, sia limitate al singolo istituto che in rete, e hanno destato interesse talune iniziative che hanno visto il diretto coinvolgimento anche degli studenti, comunque occasioni di riflessione e analisi per acquisire consapevolezza dei punti di criticità e di forza per poi promuovere processi e adottare opportune strategie di riconversione, modifica e riqualificazione del servizio attraverso anche un modello di ricerca-azione.
La “misurazione” della qualità presuppone l’individuazione di “indicatori”, cioè di “obiettivi” espressi magari in “liste di controllo”, nonché di “valutatori” , esterni o interni all’istituto scolastico, per verificare la conformità del servizio a predeterminati standard ed è collegata anche a un concetto di gestione partecipata dove il controllore dell’efficacia e dell’efficienza del processo educativo è un soggetto estraneo a chi “eroga” il servizio ma interagisce con esso. Tuttavia nell’attuale prospettazione la valutazione sembra assolvere una prevalente funzione di premialità, mentre la nuova governance appare ridurre gli spazi di partecipazione e collegialità. Quella collegialità “ottriata” e mai davvero utilizzata. Senza rappresentanti di classe e collegio docenti viene meno la possibilità di un’autovalutazione condivisa, mentre la mancanza di luoghi comuni di dialogo e riflessione sui risultati impedirebbe l’adozione di condivise azioni di riconversione e miglioramento.
D’altra parte se già oggi il governo della scuola si presenta complesso in un contesto in cui gli attori non hanno imparato ad accettarsi, dialogare e a utilizzare gli strumenti della partecipazione nel rispetto dei propri ruoli, in un momento in cui però si richiedono alle famiglie contributi sempre maggiori, è difficile pensare che queste nuove frontiere partecipative possano migliorare i già difficili rapporti.
Premesso poi che il procedimento di valutazione intanto ha un senso se affidato ai protagonisti della scuola e quindi a soggetti interni a essa, rimettere la competenza esclusivamente a strutture associative presupporrebbe o una sorta di “sindacalizzazione” dei genitori o degli studenti (posto che la fine della rappresentanza segnerebbe anche l’impossibilità di costituzione degli attuali organismi dei comitati genitori o studenteschi) al fine di assicurarne la costante presenza all’interno di ogni istituto.
A meno che l’intento di semplificazione non induca contro ogni auspicio recuperare, tra le pregresse proposte, la figura del “garante dell’utenza”.
Se è vero che la valutazione può costituire per studenti e genitori una nuova modalità di partecipazione, rischia a questo punto di restare anche l’ultima opportunità riconosciuta all’interno della nuova governance, riducendo la funzione di genitori e studenti a semplici “fruitori” di un servizio. Desta opinioni contrastanti questa funzione premiale. Le preoccupazioni maggiori riguardano il possibile condizionamento dell’autonomia didattica, in particolare qualora la percezione di qualità dei valutatori dipenda dai “risultati” conseguiti non rispetto a standard di efficacia ma al giudizio del docente. Con il rischio di una sorta di premialità retributiva.
Il rapporto scuola-famiglia rischia di essere ulteriormente impoverito e compromesso. Non più la condivisione di un unico progetto educativo, ma semplice attività di giudizio, senza spazi per individuare le criticità ed elaborare insieme un processo di cambiamento. Eppure non è ancora tardi per una proposta condivisa…
Genitori in Movimento
http://www.apritiscuola.it/genitori/inmovimento
Per approfondire, da Tuttoscuola:
• Aprea a Tuttoscuola: “Pure gli studenti potranno valutare i docenti”
• Dall'Unione degli Studenti preoccupazione per il disegno Aprea
• La Flc Cgil boccia la proposta Aprea
• Mo.I.Ge. ok alla proposta Aprea: “Fatto positivo il coinvolgimento dei genitori”
• L'A.Ge.S.C. incoraggia l'Aprea: “Sia definita presto la nuova governance del sistema scolastico”
• Il C.G.D. sulla proposta Aprea: “Gli studenti di quale età valuteranno i docenti?”
• L'A.Ge. a Tuttoscuola: “Bene la proposta Aprea”
Da altre fonti:
• Mario Rusconi – I genitori daranno i voti agli insegnanti
• Mario Rusconi – Roma. SMS Majorana: un caso concreto di autovalutazione – in RAS (Rassegna dell'Autonomia Scolastica), n° 6/2002, Edizioni romane, Roma 2002
• Sebastiano Pulvirenti – Rete FARO: 130 scuole coinvolte in un modello di autovalutazione – in RAS
• Antonio Gariboldi – Un esempio di autovalutazione di professionalità – in Infanzia
• Giancarlo Bello, Presidente Comitato InterIstituti di Vicenza e Dino Cristanini, Ispettore del Ministero P.I. – Atti del Convegno di Rovigo del 6 novembre 2000 – I Nuovi Organi Collegiali della Scuola Italiana
• Corriere della Sera – Quando i genitori danno il voto ai prof – di Giorgio de Rienzo
• Corriere della Sera – Gli studenti danno i voti ai prof. E il liceo li fa esporre in bacheca – di Annachiara Sacchi
Dello stesso autore:
• Lettera (Aperta) alle associazioni, ai candidati, agli eletti, agli elettori
• Scuola e famiglia allo stato dell’arte dopo 40 anni
pubblicato il 01/04/2010 da Education 2.0
Il rapporto scuola-famiglia rischia di essere ulteriormente impoverito e compromesso. Non più la condivisione di un unico progetto educativo, ma semplice attività di giudizio, senza spazi per individuare le criticità ed elaborare insieme un processo di cambiamento. Eppure non è ancora tardi per una proposta condivisa…
Esaurita l’avventura del programma annuale con il previsto adempimento, l’on. Valentina Aprea ha preannunciato, nella sua recente intervista a Tuttoscuola, la fase “due” della riforma, che interesserà carriera e reclutamento dei docenti nonché la nuova governance della scuola. Centrale il ruolo della valutazione, realizzata anche con il coinvolgimento di studenti, famiglie ed “organismi tecnici”.
Di valutazione e suoi strumenti si discute da tempo, quale attività di verifica e miglioramento della qualità espressa in termini di “efficienza” – in relazione all’attività svolta – e di “efficacia” – rispetto ai risultati conseguiti – in base alle risposte di valutatori.
In quanto rispondente a un principio di rendicontazione e di superamento dell’autoreferenzialità, essa ha tra le sue fonti normative: la Carta dei Servizi (DPCM 7 giugno 1995), in attuazione del principio della trasparenza e della qualità del servizio, il quale richiede anche che affinché la scuola, come comunità organizzata, operi al meglio, ogni componente agisca conformemente al proprio ruolo, nel rispetto di regole condivise anche attraverso l’adozione di un vero e proprio “contratto sociale”; nonché, soprattutto, con maggiore chiarezza ed evidenza, l’art. 21 comma 9 ultima parte della L 59/97 il quale prevede l’“obbligo di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi”, sebbene di fatto rimesso alla libera ed autonoma iniziativa in mancanza di reale cogenza.
Sono molteplici le esperienze di autovalutazione, sia limitate al singolo istituto che in rete, e hanno destato interesse talune iniziative che hanno visto il diretto coinvolgimento anche degli studenti, comunque occasioni di riflessione e analisi per acquisire consapevolezza dei punti di criticità e di forza per poi promuovere processi e adottare opportune strategie di riconversione, modifica e riqualificazione del servizio attraverso anche un modello di ricerca-azione.
La “misurazione” della qualità presuppone l’individuazione di “indicatori”, cioè di “obiettivi” espressi magari in “liste di controllo”, nonché di “valutatori” , esterni o interni all’istituto scolastico, per verificare la conformità del servizio a predeterminati standard ed è collegata anche a un concetto di gestione partecipata dove il controllore dell’efficacia e dell’efficienza del processo educativo è un soggetto estraneo a chi “eroga” il servizio ma interagisce con esso. Tuttavia nell’attuale prospettazione la valutazione sembra assolvere una prevalente funzione di premialità, mentre la nuova governance appare ridurre gli spazi di partecipazione e collegialità. Quella collegialità “ottriata” e mai davvero utilizzata. Senza rappresentanti di classe e collegio docenti viene meno la possibilità di un’autovalutazione condivisa, mentre la mancanza di luoghi comuni di dialogo e riflessione sui risultati impedirebbe l’adozione di condivise azioni di riconversione e miglioramento.
D’altra parte se già oggi il governo della scuola si presenta complesso in un contesto in cui gli attori non hanno imparato ad accettarsi, dialogare e a utilizzare gli strumenti della partecipazione nel rispetto dei propri ruoli, in un momento in cui però si richiedono alle famiglie contributi sempre maggiori, è difficile pensare che queste nuove frontiere partecipative possano migliorare i già difficili rapporti.
Premesso poi che il procedimento di valutazione intanto ha un senso se affidato ai protagonisti della scuola e quindi a soggetti interni a essa, rimettere la competenza esclusivamente a strutture associative presupporrebbe o una sorta di “sindacalizzazione” dei genitori o degli studenti (posto che la fine della rappresentanza segnerebbe anche l’impossibilità di costituzione degli attuali organismi dei comitati genitori o studenteschi) al fine di assicurarne la costante presenza all’interno di ogni istituto.
A meno che l’intento di semplificazione non induca contro ogni auspicio recuperare, tra le pregresse proposte, la figura del “garante dell’utenza”.
Se è vero che la valutazione può costituire per studenti e genitori una nuova modalità di partecipazione, rischia a questo punto di restare anche l’ultima opportunità riconosciuta all’interno della nuova governance, riducendo la funzione di genitori e studenti a semplici “fruitori” di un servizio. Desta opinioni contrastanti questa funzione premiale. Le preoccupazioni maggiori riguardano il possibile condizionamento dell’autonomia didattica, in particolare qualora la percezione di qualità dei valutatori dipenda dai “risultati” conseguiti non rispetto a standard di efficacia ma al giudizio del docente. Con il rischio di una sorta di premialità retributiva.
Il rapporto scuola-famiglia rischia di essere ulteriormente impoverito e compromesso. Non più la condivisione di un unico progetto educativo, ma semplice attività di giudizio, senza spazi per individuare le criticità ed elaborare insieme un processo di cambiamento. Eppure non è ancora tardi per una proposta condivisa…
Genitori in Movimento
http://www.apritiscuola.it/genitori/inmovimento
Per approfondire, da Tuttoscuola:
• Aprea a Tuttoscuola: “Pure gli studenti potranno valutare i docenti”
• Dall'Unione degli Studenti preoccupazione per il disegno Aprea
• La Flc Cgil boccia la proposta Aprea
• Mo.I.Ge. ok alla proposta Aprea: “Fatto positivo il coinvolgimento dei genitori”
• L'A.Ge.S.C. incoraggia l'Aprea: “Sia definita presto la nuova governance del sistema scolastico”
• Il C.G.D. sulla proposta Aprea: “Gli studenti di quale età valuteranno i docenti?”
• L'A.Ge. a Tuttoscuola: “Bene la proposta Aprea”
Da altre fonti:
• Mario Rusconi – I genitori daranno i voti agli insegnanti
• Mario Rusconi – Roma. SMS Majorana: un caso concreto di autovalutazione – in RAS (Rassegna dell'Autonomia Scolastica), n° 6/2002, Edizioni romane, Roma 2002
• Sebastiano Pulvirenti – Rete FARO: 130 scuole coinvolte in un modello di autovalutazione – in RAS
• Antonio Gariboldi – Un esempio di autovalutazione di professionalità – in Infanzia
• Giancarlo Bello, Presidente Comitato InterIstituti di Vicenza e Dino Cristanini, Ispettore del Ministero P.I. – Atti del Convegno di Rovigo del 6 novembre 2000 – I Nuovi Organi Collegiali della Scuola Italiana
• Corriere della Sera – Quando i genitori danno il voto ai prof – di Giorgio de Rienzo
• Corriere della Sera – Gli studenti danno i voti ai prof. E il liceo li fa esporre in bacheca – di Annachiara Sacchi
Dello stesso autore:
• Lettera (Aperta) alle associazioni, ai candidati, agli eletti, agli elettori
• Scuola e famiglia allo stato dell’arte dopo 40 anni
Un Paese che non fa scuola
STEFANO LEPRI
C’è
nel mondo un paese avanzato, ricco, dove le persone istruite sono meno
numerose che negli altri, eppure a chi si istruisce non è facile
trovare un posto di lavoro adeguato agli studi, e se lo trova non è
pagato bene. Per questo gli studenti si impegnano poco e i loro
risultati, nel confronto internazionale, sono deludenti. E’ un paese
dove le iscrizioni all’Università diminuiscono; dove le famiglie pagano
rette di scuole private non perché i figli si istruiscano meglio, ma
per rimediare alle bocciature o per condurli al «pezzo di carta» con
meno sforzo. All’impressione diffusa di un declino culturale
dell’Italia - che nelle nostre élites alimenta la dilagante moda di
spedire i figli in università estere - ora un libretto appena uscito dà
una rigorosa base di dati, senza forzature ideologiche. Piero Cipollone
e Paolo Sèstito, economisti della Banca d’Italia, riassumono i
risultati dei loro studi in centotrenta pagine della collana
divulgativa del Mulino, «Farsi un’idea». Prima di intitolarle Il capitale umano,
si sono domandati se questo concetto tecnico comunicasse in pieno ciò
che vogliono dire; di fatto, offrono strumenti per discutere ciò che
noi italiani vogliamo fare del nostro futuro.
Un paese più
istruito è anche un paese più civile, più solidale, con una democrazia
più ricca; è ovviamente più pronto ad impadronirsi delle nuove
tecnologie con le quali soltanto, nel dopo-crisi, i paesi già ricchi
potranno reagire alla sfida dei paesi emergenti. Negli studi della
Banca d’Italia e di altri economisti, l’Italia appare anomala. Se sotto
i 45 anni la percentuale di italiani laureati è metà rispetto ai
francesi e agli spagnoli, e poco superiore a quella dei turchi, sarebbe
logico aspettarsi che di laureati ci sia penuria. Invece il nostro
sistema economico ne chiede pochi e li paga troppo poco più di chi ha
studiato meno. Facciamo sempre meno figli, eppure diventa più difficile
sistemarli: «a partire dalla seconda metà degli Anni 80, si è avuta una
diminuzione dei salari di ingresso dei giovani laureati, non compensata
da una crescita delle loro retribuzioni al progredire della loro vita
lavorativa. Il divario retributivo fra vecchi e giovani si è anzi
ampliato fra i laureati, ma non tra i diplomati, con il risultato di
affievolire ulteriormente per i più giovani l’incentivo a conseguire
una laurea». Si rischia così un «circolo vizioso», scrivono Cipollone e
Sestito: un sistema produttivo fatto di piccole imprese e concentrato
su settori produttivi tradizionali assorbe pochi laureati (la
Confindustria chiede al governo di potenziare le scuole tecniche,
perché è casomai a quei livelli che registra mancanza di qualifiche); a
sua volta lo scarso incentivo a studiare offre alle imprese poche
persone capaci «di innovare e di adottare quelle tecnologie che ne
sosterrebbero la crescita».
La colpa è anche di come è fatta la
nostra scuola. Cipollone è anche impegnato sul campo a migliorarla,
come presidente dell’Invalsi, l’ente pubblico incaricato di valutare le
prestazioni del nostro sistema educativo, noto ai genitori per i test
nazionali omogenei che si accompagnano agli esami scolastici. Una
scoperta curiosa - sulla base dei dati di confronto internazionale
offerti dalla indagine Pisa dell’Ocse - è che sui risultati dei ragazzi
l’ambiente familiare influisce sì, ma meno che nella media degli altri
paesi. Perfino i figli di genitori istruiti non se la cavano tanto
bene. Oltre a una abbondanza di studenti che imparano poco, l’Italia
conosce anche una «scarsità di studenti dalle prestazioni molto
brillanti».
Detto in parole povere: se il futuro dei giovani
dipende più dai «pezzi di carta», dalle raccomandazioni, dal facile
subentro nella professione dei genitori, o semplicemente dal vivere di
rendita sul patrimonio di famiglia, impegnarsi non giova né ai ricchi
né ai poveri. Dai test, risulta che le elementari sono buone, e il
divario con gli altri paesi si apre nella media inferiore. Per
l’università spendiamo molto poco in assoluto, invece una cifra nella
media internazionale se la si divide per il basso numero degli
studenti. E poi c’è l’impressionante divario tra aree del Paese. Con
identiche cognizioni di matematica i quindicenni bocciati con 5 al Nord
sono faticosamente promossi con un 6 al Centro, al Sud addirittura
premiati con un 8.
la stampa del 20/4/2010
C’è
nel mondo un paese avanzato, ricco, dove le persone istruite sono meno
numerose che negli altri, eppure a chi si istruisce non è facile
trovare un posto di lavoro adeguato agli studi, e se lo trova non è
pagato bene. Per questo gli studenti si impegnano poco e i loro
risultati, nel confronto internazionale, sono deludenti. E’ un paese
dove le iscrizioni all’Università diminuiscono; dove le famiglie pagano
rette di scuole private non perché i figli si istruiscano meglio, ma
per rimediare alle bocciature o per condurli al «pezzo di carta» con
meno sforzo. All’impressione diffusa di un declino culturale
dell’Italia - che nelle nostre élites alimenta la dilagante moda di
spedire i figli in università estere - ora un libretto appena uscito dà
una rigorosa base di dati, senza forzature ideologiche. Piero Cipollone
e Paolo Sèstito, economisti della Banca d’Italia, riassumono i
risultati dei loro studi in centotrenta pagine della collana
divulgativa del Mulino, «Farsi un’idea». Prima di intitolarle Il capitale umano,
si sono domandati se questo concetto tecnico comunicasse in pieno ciò
che vogliono dire; di fatto, offrono strumenti per discutere ciò che
noi italiani vogliamo fare del nostro futuro.
Un paese più
istruito è anche un paese più civile, più solidale, con una democrazia
più ricca; è ovviamente più pronto ad impadronirsi delle nuove
tecnologie con le quali soltanto, nel dopo-crisi, i paesi già ricchi
potranno reagire alla sfida dei paesi emergenti. Negli studi della
Banca d’Italia e di altri economisti, l’Italia appare anomala. Se sotto
i 45 anni la percentuale di italiani laureati è metà rispetto ai
francesi e agli spagnoli, e poco superiore a quella dei turchi, sarebbe
logico aspettarsi che di laureati ci sia penuria. Invece il nostro
sistema economico ne chiede pochi e li paga troppo poco più di chi ha
studiato meno. Facciamo sempre meno figli, eppure diventa più difficile
sistemarli: «a partire dalla seconda metà degli Anni 80, si è avuta una
diminuzione dei salari di ingresso dei giovani laureati, non compensata
da una crescita delle loro retribuzioni al progredire della loro vita
lavorativa. Il divario retributivo fra vecchi e giovani si è anzi
ampliato fra i laureati, ma non tra i diplomati, con il risultato di
affievolire ulteriormente per i più giovani l’incentivo a conseguire
una laurea». Si rischia così un «circolo vizioso», scrivono Cipollone e
Sestito: un sistema produttivo fatto di piccole imprese e concentrato
su settori produttivi tradizionali assorbe pochi laureati (la
Confindustria chiede al governo di potenziare le scuole tecniche,
perché è casomai a quei livelli che registra mancanza di qualifiche); a
sua volta lo scarso incentivo a studiare offre alle imprese poche
persone capaci «di innovare e di adottare quelle tecnologie che ne
sosterrebbero la crescita».
La colpa è anche di come è fatta la
nostra scuola. Cipollone è anche impegnato sul campo a migliorarla,
come presidente dell’Invalsi, l’ente pubblico incaricato di valutare le
prestazioni del nostro sistema educativo, noto ai genitori per i test
nazionali omogenei che si accompagnano agli esami scolastici. Una
scoperta curiosa - sulla base dei dati di confronto internazionale
offerti dalla indagine Pisa dell’Ocse - è che sui risultati dei ragazzi
l’ambiente familiare influisce sì, ma meno che nella media degli altri
paesi. Perfino i figli di genitori istruiti non se la cavano tanto
bene. Oltre a una abbondanza di studenti che imparano poco, l’Italia
conosce anche una «scarsità di studenti dalle prestazioni molto
brillanti».
Detto in parole povere: se il futuro dei giovani
dipende più dai «pezzi di carta», dalle raccomandazioni, dal facile
subentro nella professione dei genitori, o semplicemente dal vivere di
rendita sul patrimonio di famiglia, impegnarsi non giova né ai ricchi
né ai poveri. Dai test, risulta che le elementari sono buone, e il
divario con gli altri paesi si apre nella media inferiore. Per
l’università spendiamo molto poco in assoluto, invece una cifra nella
media internazionale se la si divide per il basso numero degli
studenti. E poi c’è l’impressionante divario tra aree del Paese. Con
identiche cognizioni di matematica i quindicenni bocciati con 5 al Nord
sono faticosamente promossi con un 6 al Centro, al Sud addirittura
premiati con un 8.
la stampa del 20/4/2010
Gilberto Carron- Numero di messaggi : 518
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